Ma se vi dicessi che l’influencer non esiste più? Oddio, diciamo che ha cambiato abito. L’evoluzione nel mondo della comunicazione digitale è ormai avvenuta: si è passati dalla centralità degli influencer alla valorizzazione crescente degli User Generated Content (UGC).
Comprendere questa transizione significa entrare nel merito di logiche di mercato che a volte si celano dietro all’enorme quantità di contenuti che vediamo ogni giorno sulle piattaforme social. Una su tutti: come è cambiata la monetizzazione dei contenuti? Significa che non compreremo più il sapone biologico fatto con gli scarti della paglia influenzati dalla ventenne di turno che si professa beauty influencer? Ovviamente questa è un’iperbole, ma per farvi capire come è cambiata la comunicazione digitale bisogna approfondire lo sguardo storico e fare chiarezza sui concetti chiave.
La definizione di influencer (rispolveriamo le fonti serie) si riferisce ad un "personaggio popolare soprattutto in rete che è in grado di influenzare l'opinione pubblica riguardo a un certo argomento". Ovvero un individuo che, grazie alla sua autorità, conoscenza, posizione o relazione con il pubblico, ha la capacità di influenzare le decisioni di acquisto degli altri.
L’influencer, così come lo conosciamo oggi, esplode attorno al 2010 con l’affermarsi dei social media. In brevissimo tempo, siamo stati invasi da orde di persone che avevano una marea di cose interessanti da dire, ma soprattutto di cui noi sapevamo tutto. La loro audience (cioè i followers, i seguaci) cresceva in maniera esponenziale ad ogni scatto, ogni mossetta, ogni dettaglio documentato della loro vita. La conseguenza? L’influenza che ne deriva appare lampante non solo al pubblico, ma soprattutto ai brand. Da lì in poi, nasce un nuovo modello di marketing basato sul ruolo centrale degli influencer nella comunicazione digitale, che enfatizza la loro capacità di orientare le scelte e le opinioni del pubblico attraverso la loro presenza online. Di conseguenza, si comincia a parlare di engagement, ROI e endorsement. Si teorizzano nuovi modelli di marketing: uno di questi è il Media Engagement Framework, che aiuta a comprendere come gli influencer interagiscono con il pubblico e come queste interazioni influenzano l'engagement. Questo framework definisce diverse tipologie di persone (come individui, consumatori e influencer) e analizza come ciascuna interagisca con i contenuti mediatici, fornendo una base per misurare l'engagement e pianificare strategie di marketing efficaci. Quindi, subentra la misurazione.
Si passa da ciò che era considerato in sociologia un opinion maker (o "opinion leader”) a un influencer che monetizza.
Ma chi erano gli opinion maker e quando sono nati? Il primo teorico sociologo fu Paul Lazarsfeld, insieme a Elihu Katz, nel celebre studio sociologico:"Personal Influence: The Part Played by People in the Flow of Mass Communications" (1955). Secondo Lazarsfeld e Katz, gli opinion leader sono persone che esercitano una particolare influenza sugli altri grazie al loro prestigio sociale, competenza o posizione, diffondendo informazioni ricevute dai mezzi di comunicazione attraverso un processo a due fasi (two-step flow of communication).
Nel 2011, gli influencer irrompono sulla scena e vengono definiti coloro che sono in grado di raggiungere un numero di persone sopra la media, veicolare un messaggio e formare un’opinione.”(Marco Massarotto, Social Network: costruire e comunicare identità in Rete, Milano, Apogeo, 2011). Sempre Massarotto però introduce il criterio della rilevanza: se vuoi creare engagement con il tuo target di riferimento, l’influencer che veicola il tuo messaggio deve essere rilevante con il tuo brand.
Negli anni abbiamo purtroppo assistito ad una riduzione progressiva della rilevanza a favore di una preferenza netta per i grandi numeri, followers base enormi senza molto costrutto.
Comincia da lontano questa evoluzione: dal 2005 quando YouTube fa timidamente capolino nella nostra vita, democratizzando la creazione di contenuti video. Dal 2010 (anno di nascita di Instagram) in dieci anni cambia tutto: la spontaneità dei contenuti social viene soppiantata da un sistema di marketing ben rodato, fatto di sponsorizzazioni, contratti e negoziazioni. Per riassumere brevemente:
Si creano macro-celebrità che attingono sia dallo star system o dalle persone comuni, ma che in virtu’ di questo social power diventano loro stesse vere star. Naturalmente l’equazione sembra semplice per le aziende:
Profitto (P)=(Ricavi dalle vendite sponsorizzate)−(Costo influencer + Costi di campagna)
Arriviamo dunque a guadagni stratosferici. Giusto per farvi capire: prima della pandemia, nel 2019, la classifica degli influencer più pagati al mondo per singolo post su Instagram era la seguente:
Per quanto riguarda gli influencer italiani, sempre nel 2019, la classifica era:
Nel 2020, La pandemia cambia il panorama digitale, favorendo contenuti più autentici e realistici. Nascono gli User Generated Content.
Chi sono gli UGC Creator in realtà?
Un UGC Creator (User Generated Content Creator) è un individuo che crea contenuti apparentemente autentici e spontanei, simili a quelli che potrebbe creare un utente comune. A differenza degli influencer tradizionali, il loro valore non risiede principalmente nel numero di follower, ma nella capacità di produrre contenuti genuini, relatabili e facilmente adattabili per i brand. Il valore dell'UGC risiede proprio nella spontaneità e nell'assenza di un legame esplicito tra creatore e brand.
La differenza principale sta nella relazione con il brand: mentre l'influencer comunica attraverso contenuti sponsorizzati palesemente costruiti, l'UGC Creator si basa sulla naturalezza, generando fiducia grazie alla percepita imparzialità.
Per riassumere potremmo dire:
Influencer:
UGC Creator:
Il panorama digitale ha visto scomparire diversi influencer che non hanno saputo adattarsi alle nuove esigenze di autenticità. Figure un tempo famose, come ad esempio alcuni beauty influencer italiani e internazionali che avevano successo fino al 2018, sono progressivamente uscite di scena non riuscendo a mantenere il coinvolgimento di un pubblico sempre più scettico verso contenuti troppo palesemente promozionali.
L'evoluzione dal marketing degli influencer verso il più autentico UGC rispecchia una maturazione delle aspettative del pubblico, sempre più orientato verso contenuti autentici e affidabili. Inoltre, la legge non è rimasta a guardare, bensì l'Italia ha implementato regolamentazioni sempre più stringenti per garantire trasparenza nel marketing digitale (esempio eclatante, il caso Ferragni-Balocco).
La legge italiana impone la massima trasparenza: secondo l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), è obbligatorio dichiarare esplicitamente quando un contenuto è sponsorizzato. I post sponsorizzati devono essere chiaramente contrassegnati con hashtag come #ad, #adv, #sponsorizzato, per evitare sanzioni che possono essere severe. Tale obbligo vale sia per influencer sia per creatori di UGC quando ricevono compensi o vantaggi da parte delle aziende.
Normativa AGCOM e AGCM
Dal 2023, questa normativa europea ha introdotto ulteriori obblighi:
Il passaggio dagli influencer agli UGC creator rappresenta un'evoluzione naturale del marketing digitale verso una maggiore autenticità e relazionalità. I brand cercano oggi contenuti che parlino direttamente ai consumatori, in modo genuino e credibile, piuttosto che attraverso figure percepite come distanti e irraggiungibili.
Questa trasformazione risponde a un cambiamento nelle preferenze dei consumatori, sempre più scettici verso la pubblicità tradizionale e alla ricerca di esperienze più autentiche. Gli UGC creator rappresentano il futuro della comunicazione digitale, dove il valore risiede nella qualità dei contenuti e nella loro capacità di connettersi emotivamente con il pubblico, piuttosto che nel numero di follower o nella fama del creator.
Per le agenzie di comunicazione, comprendere questa evoluzione è fondamentale per sviluppare strategie efficaci che sfruttino al meglio le potenzialità di entrambe le figure, adattandosi costantemente a un panorama digitale in continua trasformazione.
Tempo di lettura: 9 minutiRicordo perfettamente le prime volte che provai i filtri Instagram di bellezza. Dapprima per curiosità, poi per riderne con le mie amiche, poi, ammetto, per pura vanità. Certo, alla mia età, dovrei avere ormai consapevolezza dei tratti del mio volto, eppure, lo dico con un po’ di vergogna, quei filtri mi facevano sentire… wow, quasi mi convincevo di essere proprio io. Occhi azzurri felini, lentiggini fanciullesche, pelle levigata e di un colore perfetto.
Ecco, tolto il filtro, dovevo rammaricarmi con me stessa che la mamma mi aveva fatta in un’altra maniera e ridendo, dirmi che tutto sommato ero io e andava benissimo così. Immaginate: se io invece di provare il filtro Perminova oppure il Bold Glamour alla mia verde età con consapevolezza e sense of humor, lo facessi a 14 anni? Come mi sarei sentita? Ora, analizziamo perché siamo convinti che la decisione di Meta di eliminare i filtri AR dalle proprie piattaforme sia una cosa molto seria.
Ebbene si, Mark Zuckerberg ha annunciato con una nota ufficiale sul sito dell’azienda la chiusura di tutti i filtri facciali e gli effetti AR di terze parti su Facebook, Instagram e Messenger, insieme agli strumenti utilizzati per crearli, a partire dal 14 gennaio 2025, cioè ieri. Tuttavia, gli effetti AR di Meta continueranno a funzionare.
Questa ultima frase è molto importante, ma capiremo perché. Seguitemi.
La storia di Instagram è una storia di continua evoluzione. Da semplice applicazione per condividere foto con filtri basilari, si è trasformata in una piattaforma sofisticata dove la realtà aumentata (AR) gioca un ruolo fondamentale. Oggi, con oltre un miliardo di utenti attivi mensili, Instagram deve gran parte del suo successo proprio ai filtri AR, che hanno rivoluzionato il modo in cui le persone si esprimono e interagiscono online.
Il viaggio dei filtri AR su Instagram inizia nel 2016, quando Facebook (ora Meta) acquisisce MSQRD (Masquerade), una startup bielorussa specializzata in effetti facciali in tempo reale. Questa mossa strategica segna l'inizio di una nuova era per la piattaforma. Nel 2017, Instagram lancia i primi filtri AR con tecnologia di face tracking, permettendo agli utenti di aggiungere elementi virtuali ai loro selfie in tempo reale.
Sempre nello stesso anno, Instagram democratizza la creazione dei filtri AR aprendo Spark AR Studio al pubblico. Questo tool di sviluppo, precedentemente accessibile solo a creator selezionati, diventa disponibile per chiunque voglia creare i propri effetti di realtà aumentata.
I filtri AR (Realtà Aumentata) sono effetti digitali, che si sovrappongono in tempo reale alle immagini catturate da una fotocamera, tipicamente quella dello smartphone. La Realtà Aumentata nasce nel 1957 grazie agli studi di Morton Heilig, regista e inventore statunitense,come esperienza sensoriale immersiva per poi evolversi verso il mainstream negli anni 2000. A oggi è impiegata in tantissimi campi quali educazione, medicina, retail, navigazione, industria manifatturiera e, ovviamente, intrattenimento. Oggi al cuore di ogni effetto ci sono diverse tecnologie sofisticate che lavorano in sincronia:
La base di ogni filtro facciale è un sistema di computer vision che utilizza algoritmi di machine learning per identificare e tracciare i punti chiave del volto (facial landmarks). Questi algoritmi possono riconoscere fino a 68 punti differenti sul viso, creando una mappa dettagliata che permette al filtro di "agganciarsi" correttamente alle caratteristiche facciali.
Quando un filtro aggiunge elementi 3D al viso (come orecchie da coniglio o corone), utilizza una mesh tridimensionale che viene deformata in tempo reale per seguire i movimenti dell'utente. Questa mesh è composta da una rete di punti (vertici) collegati tra loro che formano la struttura dell'oggetto virtuale.
Gli effetti visivi come brillantini, cambi di colore o modifiche alla pelle vengono gestiti attraverso shader programs, piccoli script che definiscono come la luce interagisce con le superfici virtuali. Questi shader possono simulare materiali complessi come metalli, plastica o persino pelle umana.
Occasione ghiottissima per le piattaforme social, i filtri sono stati prima introdotti da Snapchat nel 2015 e poi, come abbiamo detto, su Instagram nel 2017.
Meta Spark ha debuttato quando le esperienze di realtà aumentata erano ancora relativamente nuove per molti consumatori. Da allora, gli effetti AR sono stati utilizzati “miliardi di volte” da “centinaia di milioni di utenti di Meta,” ha dichiarato l'azienda nell'annuncio. Questo notevole successo ha reso Meta Spark una delle più grandi piattaforme AR del tempo.
Oltre a costruire effetti per Facebook e Instagram, il programma si è ampliato nel 2021 con la possibilità di creare effetti AR per videochiamate su Messenger. In quel periodo, l'azienda ha dichiarato che più di 600.000 creatori provenienti da oltre 190 paesi avevano creato effetti AR utilizzando i suoi strumenti.
Ecco le sue principali funzionalità:
Permette di sviluppare filtri che modificano l'aspetto del viso nelle foto e nei video, come per esempio:
- Effetti che invecchiano o ringiovaniscono il volto
- Trasformazioni in stile cartone animato
- Maschere e make-up virtuali
- Decorazioni facciali
Oltre ai filtri facciali, consente di creare:
- Giochi in realtà aumentata
- Effetti per l'ambiente circostante
- Contenuti pubblicitari interattivi
- Esperienze AR interattive
Offre un insieme di strumenti che permettono ai creator di:
- Progettare effetti personalizzati
- Testare le creazioni
- Pubblicare gli effetti sulle piattaforme Meta
- Monitorare le performance dei loro effetti
Come abbiamo accennato, dal 14 gennaio 2025, qualsiasi video che ha utilizzato effetti AR basati su Spark rimarrà su Facebook, Instagram e nei messaggi inviati tramite Messenger, ma i creator specializzati non potranno più crearne di nuovi.
Ci sono eserciti di “creator” che hanno fondato il proprio business sulla creazione di filtri AR, ovviamente venduti a Meta stessa o a brand di vario genere.
Ovviamente i creator hanno protestato parecchio per la decisione di Meta. In post pubblicati nella Community di Meta Spark su Facebook, esprimono la loro delusione, notando che per alcuni di loro questo passo li porterà a perdere il lavoro, e chiedendo di conoscere le motivazioni dietro la mossa dell'azienda. Naturalmente dall’azienda grandi ringraziamenti a coloro che hanno permesso con la loro creatività di far crescere il business, ma nulla di più.
Ma veramente gli sviluppatori di effetti AR guadagnano? Come?
Possono guadagnare in vari modi, ma i guadagni possono variare notevolmente a seconda di diversi fattori, tra cui l'esperienza, la qualità del lavoro e il mercato di riferimento. Ecco alcune delle principali fonti di guadagno:
Commissioni per progetto
Molti sviluppatori freelance o agenzie possono addebitare una tariffa per progetto, che può variare da qualche centinaio a diverse migliaia di euro, a seconda della complessità del filtro e delle richieste del cliente.
Sponsorizzazioni e collaborazioni:
Gli sviluppatori possono collaborare con brand o influencer per creare filtri personalizzati, guadagnando una commissione o una tariffa fissa per il lavoro.
Vendita di filtri:
Alcuni sviluppatori creano filtri AR e li vendono a marchi o aziende, guadagnando royalties o una tariffa per l'uso.
Monetizzazione tramite piattaforme:
Instagram e altre piattaforme stanno introducendo modi per monetizzare direttamente i contenuti AR, che possono includere commissioni sui guadagni pubblicitari generati dai filtri.
Corsi e consulenze:
Alcuni sviluppatori esperti offrono corsi o consulenze su come creare filtri AR, creando un'ulteriore fonte di reddito.
Sicuramente, nel contesto della creator economy, gli effetti AR personalizzati rappresentano un'interessante opportunità di guadagno.
Per rimanere in tema di filtri beauty, alcuni come per esempio il Bold Glamour sono diventati virali a tal punto da generare miliardi di visualizzazioni.
A differenza dei filtri AR standard, per esempio, il viralissimo Bold Glamour è tra i più moderni filtri AI-AR, alterano i volti con l'impiego dell'intelligenza artificiale. Si sfrutta la cosiddetta "rete generativa avversaria", la stessa dei deepfake: si ha un database di immagini ideali prese come riferimento, a cui rifarsi. È una tecnologia molto più raffinata, che restituisce un risultato gradevole e iperrealistico, ma pur sempre irraggiungibile. Con un solo tocco si va a levigare il viso, alzare le sopracciglia, rimpolpare le labbra, ingrandire gli occhi, rimpicciolire il naso, gonfiare gli zigomi, marcare i lineamenti, scurire la pelle. Il risultato, visto l'impiego su larga scala, è chiaramente un esercito di facce tutte uguali, per rincorrere la tanto agognata perfezione.
Ma tutto ciò è normale?
I filtri di bellezza ci hanno regalato volti e corpi virtuali, dalla perfezione irrealistica, ma che ci hanno portato a inseguire un ideale di bellezza completamente aumentato.
Ora, invece, Meta fa un passo indietro: spariranno più di due milioni di filtri, quelli creati dagli utenti tramite Meta Spark Studio. Resteranno però a disposizione degli utenti quelli originali creati da Meta. Si parla di poco più di un centinaio, contro i milioni messi online da terzi, non più disponibili. Sebbene centinaia di studi (uno su tutti, Canadian Study of Adolescent Health Behaviors 2022) abbiano messo in correlazione l’uso dei filtri e il peggioramento di alcune patologie psicologiche soprattutto nei giovani, non crediamo che l’azienda abbia preso la decisione mossa da motivazioni etiche.
Diverse ricerche parlano della selfie dismorphia come di una conseguenza gravissima dell’utilizzo di beauty filters. Hanno scoperto che l’utilizzo di beauty filters aumenta il rischio di sviluppare dismorfismo, dunque l'ossessione per la ricerca di un fisico perfetto che getta in una profonda depressione e insoddisfazione, nei confronti del proprio aspetto fisico. Non si è mai abbastanza, ma non potrebbe essere altrimenti: è impossibile competere con un filtro nato per essere perfetto.
La selfie dismorphia (o dismorfia da selfie) è un fenomeno psicologico moderno che si manifesta come una forma di dismorfia corporea legata specificamente all'aspetto nelle foto digitali. Ecco gli aspetti principali:
La condizione si caratterizza per:
- Un'eccessiva preoccupazione per come si appare nelle foto sui social media
-Una percezione distorta del proprio aspetto quando ci si confronta con foto filtrate/modificate
- L'impulso compulsivo di scattare e ri-scattare selfie fino a ottenere l'immagine "perfetta"
- Un confronto ossessivo con le immagini idealizzate sui social media
Gli impatti sulla salute mentale includono:
- Ansia sociale legata all'apparire in foto non modificate
- Bassa autostima e insoddisfazione per il proprio aspetto reale
- Ricorso eccessivo a filtri e app di editing fotografico
- In alcuni casi, richieste di interventi di chirurgia estetica per assomigliare ai propri selfie filtrati
I fattori che contribuiscono al fenomeno sono:
- La diffusione di filtri e app di modifica foto sempre più sofisticati
- La pressione sociale sui social media per apparire "perfetti"
- L'esposizione costante a immagini altamente ritoccate di celebrità e influencer
- La discrepanza tra l'immagine reale e quella digitalmente modificata
Non è ovviamente un problema recente, già nel 2023 ben 41 Stati Americani e il distretto della Columbia avevano citato Meta in giudizio per essere colpevole di attentare alla salute mentale dei minorenni tramite l’uso delle piattaforme. Una denuncia federale di 233 pagine che ovviamente Meta ha respinto. La relazione tra social network e salute mentale degli adolescenti rimane controversa.
Arriviamo insieme alla fine del ragionamento, che in realtà è molto semplice. Andiamo per tappe:
Si può dedurre che l’azienda non abbia avuto remore etiche sul tema di filtri deformanti. Non crediamo che Instagram abbia preso questa decisione per motivi legati alla bellezza irraggiungibile. Ovviamente I motivi sono aziendali, strategici ed economici, gli investimenti e i budget si riorganizzano al passo con gli avanzamenti tecnologici.
Rimarremo sempre un po’ più belli, ma solo con i filtri targati Meta, speriamo che non ci facciano sempre più ebeti.
Tempo di lettura: 8 minutiVi ricordate quando negli anni ‘90 facevamo letteralmente esplodere le reti telefoniche causa overload di sms “Tanti Auguri di Buon Natale!!!”? E via di dito fumante per rispondere alle centinaia di messaggi di amici e parenti (e non c’era manco il copia e incolla). Ecco. Come siamo arrivati fin qui, a giocare sui social a Whamageddon? (crasi tra il noto gruppo musicale degli Wham! e Armageddon, che domande).
Anche se oggi possiamo chattare in Chatgpt con la voce di Babbo Natale in persona, dobbiamo risalire agli anni ‘30 per trovare le prime campagne pubblicitarie natalizie dove compare Lui, Santa Claus. Fu la Coca-Cola, nel 1931, che affidò al disegnatore Haddon Sundblom il compito di creare una pubblicità natalizia per il brand. Sundblom discostandosi dalla tradizione precedente, che raffigurava Santa Claus come uno gnomo vestito di verde, blu, bianco o rosso, si rifece alla descrizione presente nel poema di Clement Moore “Twas the Night bifore Christmas” (1822) e diede vita a un Santa Claus più umano e realistico, una figura allegra e rassicurante, vestito di rosso e bianco (i colori del logo Coca-Cola). Sundblom stesso dichiarò di avere inizialmente utilizzato, come modello per i lineamenti di Santa Claus, un anziano vicino di casa e che, dopo la morte di questi, usò il proprio volto. Non sappiamo se lui si rese conto che la figura di Babbo Natale raffigurata in quel modo sarebbe durata così a lungo. Questi annunci hanno avuto un impatto rivoluzionario sulla cultura popolare e sull'immagine del Natale.
Abbiamo visto che dal 1931, primo anno della famosa pubblicità Coca-Cola e del claim “Holidays are coming”, si sono susseguite moltissime rappresentazioni del Natale che cambiavano con l’evolversi della società. Se prendiamo ad esempio l’Italia, negli ultimi 40 anni la cultura pubblicitaria ha creato uno storytelling natalizio, che è riuscito ad entrare nella nostra cultura pop con tanti spot indimenticabili. Da Renato Pozzetto che addentando il suo panettone Motta esclamava “Il Natale quando arriva, arriva”, all’azienda Bauli che usava come colonna sonora “A Natale puoi”, (oggi uno dei brani natalizi più ascoltati su Spotify in Italia) per toccare le nostre corde più intime e familiari.
Questa tecnica pubblicitaria naturalmente fa leva sulla connessione emotiva che si viene a creare tra il brand e il consumatore, catturando l’essenza del Natale e promuovendo una cultura di marketing natalizia.
La rappresentazione del Natale sui social media si è evoluta notevolmente nel corso degli anni, riflettendo cambiamenti culturali, tecnologici e nelle abitudini degli utenti. Ecco alcune fasi chiave di questa evoluzione:
Questa evoluzione ha reso il Natale sui social non solo un momento di celebrazione, ma anche un'opportunità per connessioni più profonde e significative tra le persone e i brand.
L’emotional branding e l’emotional marketing rappresentano due approcci che hanno come obiettivo proprio quello di creare quella connessione emotiva tra il cliente e il brand, fattore cruciale per aumentare le vendite. Di certo il periodo natalizio è uno dei momenti clou per sfruttare questa connessione, e i brand lo sanno bene. La sfida è quella di riuscire a creare un legame forte tenendo in considerazione quale delle 5 generazioni si vuole ingaggiare (ne abbiamo parlato anche qui), ma una volta compreso quali emozioni attivare e su quali desideri far leva, la connessione emotiva diventa importantissima.
Ne parlano anche diverse ricerche:
The new science of customer emotions - Harvard Business Review (2015): in questo studio gli autori hanno sviluppato un lessico di motivatori emotivi e, utilizzando l'analisi dei big data, hanno collegato questi motivatori a comportamenti specifici e redditizi. I motivatori emotivi sono fattori psicologici profondi, che influenzano le decisioni dei consumatori, come il desiderio di appartenenza, sicurezza o successo personale.
Impact of Emotional Marketing on Consumer Decision Making: A Review – IJFMR (2024): lo studio pubblicato sull'International Journal for Multidisciplinary Research analizza come il marketing emozionale influenzi le decisioni di acquisto dei consumatori, evidenziando come le emozioni giochino un ruolo chiave nelle decisioni di acquisto, ma spesso si combinino con fattori razionali.
Social Network Emotional Marketing Influence Model of Consumers’ Purchase Behavior – MDPI (2023): un altro studio che ha sviluppato un modello per analizzare l'influenza del marketing emozionale sui social network.
Emotional marketing on consumer behaviour - perception study – International Journal on Customer Relations (2022): una ricerca condotta su 150 partecipanti ha esplorato come le emozioni influenzino il comportamento dei consumatori. I risultati hanno mostrato che le emozioni hanno un impatto significativo, ma sono soggettive e dipendono dall'umore attuale e dalle esperienze passate dei consumatori. Inoltre, nonostante la difficoltà nel soddisfare tutte le esigenze emotive dei clienti, il marketing può essere ottimizzato attraverso pubblicità mirate e un'immagine di marca coerente
In sintesi, la connessione emozionale può influenzare significativamente le vendite, con percentuali che variano dal 20% al 76% a seconda del settore e delle ricerche.
Più emozioni, più vendi. Sembra scontato, ma per fare ciò i professionisti del marketing devono saper usare la propria intelligenza emozionale per comprendere meglio i clienti e creare campagne più efficaci.
L’intelligenza emozionale è un concetto che descrive la capacità di riconoscere, comprendere, utilizzare e gestire efficacemente le proprie emozioni e quelle degli altri. È entrata nella cultura popolare grazie al libro dello scrittore e giornalista Daniel Goleman nel suo Intelligenza Emotiva pubblicato nel 1995.
L’intelligenza emozionale può migliorare l’engagement e la fedeltà del cliente in diversi modi:
L'IE consente alle aziende di identificare e comprendere le emozioni dei clienti. Questo permette di: riconoscere i bisogni emotivi non espressi e di rispondere con empatia, migliorando la comunicazione e costruendo fiducia.
Utilizzando dati emotivi e contestuali, le aziende possono creare esperienze personalizzate che risuonano con i clienti, come offerte e contenuti mirati alle preferenze emotive o l’adattamento in tempo reale grazie a tecnologie come l'Emotion AI, che analizza i sentimenti dei clienti per ottimizzare le interazioni.
Le connessioni emotive rafforzano la fedeltà al brand. I clienti con un legame emotivo sono più propensi a rimanere fedeli e a spendere di più (fino al doppio rispetto ai clienti non coinvolti emotivamente). Campagne come quelle di Nike ("Dream Crazy") o Dove ("Real Beauty") dimostrano come l'IE possa evocare emozioni potenti, rafforzando il legame tra brand e consumatori.
L'IE aiuta i team di assistenza a gestire meglio le interazioni con i clienti attraverso una risoluzione più rapida dei conflitti grazie all'empatia e alla comprensione delle emozioni. Questo approccio permette la trasformazione delle esperienze negative in opportunità per costruire relazioni positive.
La fiducia è la base delle connessioni emotive: una comunicazione coerente e un approccio empatico rafforzano la percezione positiva del brand. I clienti che si sentono compresi sono più propensi a raccomandare il brand ad altri.
L'integrazione dell'intelligenza artificiale con l'IE consente un’analisi in tempo reale delle emozioni durante le interazioni e una prevenzione della disaffezione individuando segnali di insoddisfazione prima che diventino problemi seri.
Possiamo tranquillamente affermare che i creativi e marketers all’origine dell’ultimo spot JD “The Family Portrait” sono egregiamente riusciti nell’intento di utilizzare l’intelligenza emotiva per creare una storia empatica, rispondendo all’evoluzione della società con un tono di voce chiaro e personalizzato.
From your day ones, to your new ones, Family is forever.
Per JD, decorazioni e luci scintillanti a parte, è importante concentrarsi su ciò che è veramente il Natale: la FAMIGLIA. Chiunque essa sia. La famiglia può essere fatta di amici, di persone care, di colleghi. Un inno alla diversità e all'inclusione, celebrando i legami autentici che ci uniscono.
Tra le tante iniziative e campagne social legate al periodo natalizio, alcune riescono meglio nell’intento di diventare moderne e accattivanti, riuscendo a far parlare del Natale non solo per le lucine (a proposito fatevi due risate con l’account Instagram Luci di Merda) o i pigiamoni con le renne.
L’iniziativa benefica a Milano, “Scatole di Natale” ha raccolto dodicimila pacchi per regalare un Natale a tutti, riscaldando le feste dei più bisognosi. Era nata nel 2020 come poco più che colletta di quartiere; ora l’iniziativa delle Scatole di Natale solidali ha sfondato il tetto dei 130 mila doni raccolti in quattro anni. E sono tornate, di nuovo, per donare un pacco da mettere sotto l’albero anche a chi l’albero proprio non ce l’ha. Capitanata dalla franco-milanese Marion Pizzato riprende un format già celebre e virale in Francia “Les boîtes de Noël”.
Altre come dicevamo, ci fanno sorridere e sdrammatizzano un periodo sicuramente carico di impegni ed obblighi sociali. Per esempio, mi piace parlarvi di Whamageddon, un gioco che sta spopolando sui social network e che ha come protagonista la celebre canzone Last Christmas degli Wham!.
“Whamageddon” è una sfida annuale lanciata sul web, che consiste nell’evitare per tutto il periodo natalizio di ascoltare il successo degli Wham! Last Christmas. Sta raggiungendo nuove vette grazie a un hashtag di tendenza di TikTok in cui migliaia di giocatori condividono come intendono vincere la sfida o come hanno perso. Uno dei motivi per cui Last Christmas è così difficile da evitare è perché è così popolare: ogni anno Spotify calcola 134 miliardi di streaming eleggendola la seconda canzone di Natale più ascoltata della storia. Allora si gioca evitando le radio, pattinaggi sul ghiaccio, feste natalizie nei pub, Christmas parties con i colleghi…. Molto arduo. Regole ben precise da seguire, sono accettate le cover ma bisogna autodenunciarsi postando l’hashtag #whamaggedon. E voi siete tentati?
Il Natale di oggi è sicuramente molto più faticoso di un tempo, c’è l’incombenza regali che tutte le pubblicità ci ricordando incessantemente, e dobbiamo sottostare a una serie di usi e costumi che, certo, oggi mi chiedo se indotti o naturali. È indubbio che marketing e consumismo abbiano aiutato a renderlo cosi come è, tuttavia sta ovviamente a ognuno di noi capire quali veri significati dare a una ricorrenza cosi importante.
Per molti, comunque il Natale quando arriva, arriva. Purché venda.
Tempo di lettura: 8 minuti“La nostra esperienza online non deve dipendere da miliardari che prendono decisioni unilaterali su ciò che vediamo. Su un social network aperto come Bluesky, puoi modellare la tua esperienza da solo”, afferma Bluesky sul suo sito Web, una possibile frecciatina alla proprietà di Musk di X.
Una settimana dopo le elezioni americane che hanno decretato la vittoria del già Presidente Donald Trump, si è prodotto un fenomeno inatteso e abbastanza rivoluzionario nella galassia costellata da social media. Bluesky, nuovo social alternativo a X (ex Twitter) ha raggiunto i 15 milioni di utenti, quasi 2 milioni in più rispetto alla fine di ottobre. Ad oggi, Bluesky sta per toccare i 23MLN (potete seguire l’ascesa inarrestabile secondo per secondo qui).
Bluesky nasce nel 2019 per volere del suo fondatore Jack Dorsey, allora anche fondatore di Twitter. L’obiettivo di Dorsey era quello di immaginare una tecnologia capace di far funzionare dei social media in modo “decentralizzato”, connessi, ma autonomi. La teoria dietro a questo progetto (affidato a Parag Agrawal, all’epoca Chief Technology Officer di Twitter e in seguito CEO Twitter per un anno) fu quella di dare più libertà agli utenti, senza avere un’autorità centrale appunto, che decida per loro i contenuti e possieda i loro dati.
Dal 2021 Jack Dorsey ha lasciato Bluesky, ma l’azienda è diventata una società indipendente guidata da una giovanissima CEO di 33 anni, Jay Graber, la quale ha accettato la sfida ad una sola condizione: essere indipendenti da X, ormai comprata da Elon Musk.
Se aprite un account su Bluesky, la prima cosa che vi colpirà sarà la somiglianza perlomeno grafica con X: la pagina utente ricalca colori, posizioni, descrizioni di X. Ma le peculiarità di Bluesky stanno nelle seguenti caratteristiche:
Sicuramente, la caratteristica principale è il fatto di essere una piattaforma decentralizzata, il codice di Bluesky è completamente open source, il che offre alle persone esterne all'azienda trasparenza su ciò che viene costruito e come.
L’amministratrice delegata Jay Graber ha dichiarato a Wired (novembre24): “Bluesky è un progetto a lungo termine. L'idea non è quella di ricreare il classico Twitter, ma di rimodellare i social media secondo il principio dell'apertura e del controllo affidato agli utenti”. Tornare agli albori, insomma, prima che le aziende invadessero il mondo social con algoritmi e percorsi forzati verso le loro idee. Questa è la visione di Bluesky, che rappresenta una versione digitale del sogno hippie, dove le comunità possano vivere esperienze personalizzate e piacevoli.
Questa configurazione offre agli utenti più possibilità di controllare e curare la propria esperienza sui social media. Su una piattaforma centralizzata come Instagram, ad esempio, gli utenti si sono ribellati contro le modifiche dell’algoritmo che non apprezzano, ma non c’è molto che possano fare per ripristinare o migliorare un aggiornamento indesiderato dell’app.
Sicuramente, l’esplosione post elezioni di Bluesky fa riflettere, ma non dimentichiamo di guardare sempre i numeri in prospettiva. Ecco, dunque, un breve elenco dei social media con le community più grandi e attive (da non dimenticare questa parola per il paragrafo successivo):
Possiamo dunque desumere da questi dati, che sicuramente Bluesky è in forte ascesa, ma diciamo che il panorama attuale nel mondo social è sicuramente molto competitivo in termine di base utenti. Nonostante il palese schieramento di X su posizioni estremiste nell’era trumpiana e il conseguente abbandono dello stesso da parte di una certa intellighenzia, il nostro neonato Bluesky rimane ancora troppo piccolo per potersi definire un player di livello, soprattutto in termini di produzione di contenuti.
Lo spostamento in massa da X a Bluesky (o semplicemente l’abbandono di X) e i principi teorici su cui si basa la nascita di Bluesky, hanno fatto sì che la base degli utenti diventasse uno specchio di un certo tipo di società non certo di massa, ma formata da quell’ala politicamente schierata con i liberali di sinistra e i membri delle comunità accademiche (professori, avvocati etc) oltre ad una quantità di produttori di contenuti notevole: giornalisti, scrittori, tech writer e protagonisti culturali del nostro tempo.
Ma addentriamoci nei dati e analizziamo:
Avevamo lasciato l’avvicendamento al potere tra Jack Dorsey e la CEO prodigio Jay Graber, una cino-americana il cui nome proprio cinese Lantian significa “Cielo Blu”, coincidenze? Ora Dorsey è uscito di scena, la grande sfida che si profila all’orizzonte è come mantenere gli utenti nella più pura libertà di movimento (e dunque lasciandoli liberi di traslocare da una piattaforma all’altra) mantenendo i profitti derivati dai loro dati? No pubblicità, no soldi, dice l’antico saggio (cioè io). Oggi Bluesky è finanziata da venture capitalist, che sicuramente avranno aspettative di un certo tipo in termini di guadagno. Inoltre, il principale investitore ad oggi è una società di criptovalute.
Sarebbe fantastico se la visione di Bluesky si avverasse: un mondo digitale dove ognuno è padrone del proprio pensiero e della propria identità digitale, che stimoli all’uso del cervello e alla creazione di opinioni proprie e personali. Se vivessimo in un mondo di piattaforme aperte e sane, la concorrenza non potrebbe che essere sana e stimolante. Purtroppo, siamo, credo ancora lontani.